INUTILE
PRISON CHRONICLES / 2013 N.10
MA
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Si sente parlare molto di carcere,parole dette e ridette,sulla sua funzione ,sulla degradante condizio- ne dei carcerati,è rimbalzata ovunque,fino allo sfinimen- to di ogni attesa... rimanendo spesso,solamente parole. L’i- nerzia regna sovrana,piena appunto di parole e pro- messe. I problemi da mette- re a fuoco,comunque,stando all’ordinamento penitenziario in Italia sono sostanzialmente due:uno che resiste tenace ad ogni argomentazione è relati- vo al ruolo che viene attribuito al carcere e la valutazione del grado di umanità che ogni cit- tadino mette in risalto. Questo non è certo di secondaria im- portanza se è vero che,come la gente pensa,il carcere dà la mi- sura di civiltà di una Nazione. Il carcere,come struttura,è ad oggi impostato per dirci che le pene sentenziate dai tribunali indicate sui reati gravi o meno gravi,è da intendersi e da ge- stire come punizione. Chi sba- glia deve pagare. Così,tutto il lavoro carcerario tende ad es- sere più o meno oppressivo e a “riabilitare” forzando i vecchi vissuti,preoccupandosi di ot- tenere un comportamento che non susciti fastidi all’interno degli istituti. Personalmente, così facendo, stando a queste regole carcerarie,acquisiamo comportamenti senza perso- nalità, senza mettere radici nella coscienza che richie- de sempre più, di nutrirsi di limpidezza e di scelte libere e gratuite. Le convinzioni su ciò che è bene e su ciò che è male, non si sviluppano dalla re- pressione della violenza (più o meno sottile), ma da scelte libere, quotidiane, dinamiche e creative; attraverso rapporti personali condivisi nella liber- tà non nella complicità. Continue parole, così il car- cere vive costantemente nella fantasia della gente, come il luogo certo che rassicura dal- le sempre più invadenti forme di violenza e criminalità. Arri- vando a giustificare luoghi as- surdi come Guantanamo. Il problema, personalmente, penso non stia nel chiudere le carceri (dibattito infinito), ma in una riforma sincera della giustizia, arrivando ad abo- lirlo, tranne per casi di alta criminalità, non contenibili al- trimenti. Negato il culto ven- dicatore del carcere, vanno create e favorite strutture al- ternative, alle quali possiamo dare i più svariati nomi, tutte però finalizzate al recupero dell’intelligenza e la creativi- tà nelle relazioni. Fortunata- mente sono presenti in carce- re persone di buona volontà che cercano di dare un senso con la loro generosa opera alla nostra detenzione. Volonta- ri, medici, operatori sociali, guardie e anche alcuni Diret- tori e molti di noi respirano un pò meglio grazie a queste generose presenze. Ma il carcere ha in se una for- za creativa diabolica, capace di inghiottire il nuovo e reinventare il vecchio parados- salmente più efficace e sicuro. Sembra quasi che le persone che si donano per il nostro bene, restino imbrigliate, rassegnandosi ai vincoli del regolamento e delle risorse economiche. E’ innegabile, il carcere è un segno di violenza e la gente si troverà a ragiona- re, con difficoltà, influenzata dallo strumento che la nostra società si inventerà per gestire la pena. Alla fine il carcere gestisce la vita di uomini e donne più o meno pericolosi a volte inno- cui se non innocenti, affatican- do il nostro presente e il no- stro futuro. E’ innegabile, il nostro paese ha, nelle autorità e in tutto il sistema giuridico; dalle for- ze dell’ordine ai magistrati un impronta punitiva auto- revole, proveniente, come in molti dei paesi rimasti coin- volti, dall’eredità che ci hanno lasciato i Governi del primo dopo guerra. Ordine, discipli- na, la cultura del manganello, che tradotta ai giorni nostri è più semplicemente....chi sba- glia deve pagare......e in tutto, a volte a scapito per fino dell’ umana dignità. Una cultura violenta, discrimi- nante, spesso imbarazzante, se si pensa che le carceri man- tengono la stessa impronta ormai da più di mezzo secolo. La realtà rimane quindi spac- cata, il cittadino con un suo pensiero politico e un suo in- dirizzo etico, come può vede- re il carcere se non un rifugio (del pensiero) dove garantisti si oppongono ad una disob- bedienza a volte inesistente, che il più delle volte è mani- festazione di un disagio che ha radice nell’esperienza del rifiuto e del pregiudizio? La sicurezza non nasce dal- la diffidenza, che è l’ anima dei controlli e che finisce con il vigilare sull’osservanza del codice e perde a pezzi lo spi- rito creativo dei rapporti. Le carceri non sono e non devono essere contenitori infiniti nei quali stivare sll’infinito. Con questo pensiero, il contenuto, noi detenuti, perdiamo di va- lore agli occhi di molti; ma se è vero che il carcere è uno stru- mento di rieducazione, tanto deve fare per la popolazione detenuta ad un concreto pro- getto evolutivo. Le nuove norme, nella ge- stione delle pene, finalmente aprono all’esecuzione delle condanne non le porte del car- cere ma alla proposta del la- voro socialmente utile e più in generale delle pene alternati- ve. Le associazioni del no-pro- fit saranno gli strumenti che ci porteranno su strade sem- pre più incisive ed efficaci ad una cultura della gratuità e del bene comune. Sarà l’ incontro di questa proposta legislativa con tutte le realtà sociali a can- cellare ogni traccia di sapore carcerario e ad aprire alla fa- tica del riscatto nel dono di sè. Se però lasciamo spazio a tutti i mostri garantisti che lavora- no nel mondo della legalità nutriti di diffidenza e paura nei confronti di tutte queste realtà sussidiarie, verremo a capo di ben poco e resteremo perennemente all’ombra di steccati e sbarre.
RORHOF