LA FAMIGLIA FAMOSA DELLA CITTÀ DI MOUSSEL
PRISON CHRONICLES / 2011 N.9
MD
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A Moussel, l’antica Ninive della Bibbia, viveva una famiglia famosa: il figlio era un poliziotto, il padre pubblico ministero, il nonno giudice. Come se non bastasse alla fama e al potere di questa famiglia si aggiungeva che molti dei parenti erano avvocati. Viveva in questa città anche uno straniero che era scappato dal suo paese per motivi politici. Il nome non possiamo dirlo, ma per capirci lo chiameremo con un nome inventato “Omar”. Lo Straniero viveva una vita molto tranquilla e normale. Se trovava lavoro, lavorava, se non ce n’era provvedeva la famiglia a mandargli dei soldi in modo che potesse vivere senza problemi. Il poliziotto girava spesso per la città e teneva d’occhio Omar e, un po’ per razzismo, un po’ per invidia della sua vita tranquilla, pensò di farlo cadere in disgrazia. Vista la famiglia da cui proveniva non gli era difficile rovinarlo: andò da suo padre, il famoso magistrato, e gli chiese di arrestarlo. Il padre voleva sapere il motivo della richiesta: “Figlio, cosa ha fatto quell’uomo per meritare di andare in prigione? Quale delitto ha commesso?” Rispose il figlio: “Ancora niente, ma non ti preoccupare, troverò io il modo per incastrarlo: noi siamo i rappresentanti dell’ordine e della giustizia di questo paese…” A Moussel vivevano anche due amici di Omar che provenivano dallo stesso paese da cui se ne erano andati per lo stesso motivo. Quando non erano impegnati col proprio lavoro, uscivano spesso assieme, festeggiavano le stesse feste perché era bello sentire la stessa lingua, cantare le stesse canzoni, raccontare le storie che conoscevano. Omar aveva anche una ragazza di un’altra città. Non potevano incontrarsi tutti i giorni, di solito si vedevano il sabato o la domenica o quando c’era qualche altra festa. Un giorno, mentre si recava al lavoro, Omar fu fermato da alcuni poliziotti che gli misero le manette, lo caricarono sulla loro macchina e lo portarono nella prigione della città senza spiegargli niente: nessuno gli disse cosa aveva fatto di male o quale legge avesse trasgredito. Omar provò a chiederlo più volte, gridando o parlando a bassa voce, ma nessuno gli diede una risposta. Poi si calmò perché dentro di sé sapeva di non aver fatto niente di male per cui si mise ad aspettare che gli dicessero qualcosa. Dopo un po’ di tempo sentì delle voci che parlavano e chiedevano ad alta voce. Guardò la porta e vide, con grande sorpresa, che i suoi amici avevano avuto la stessa sua sorte: erano ammanettati, spinti da poliziotti e chiedevano spiegazioni su cosa di male avevano fatto. Dopo due giorni di silenzio in cui cominciarono a non sentirsi più tanto tranquilli, si presentarono in carcere dei poliziotti con tante carte e chiesero ai disgraziati di firmarle. Omar e i suoi amici non conoscevano ancora bene la lingua del paese che li ospitava e per loro le carte avevano un significato sconosciuto, ma firmarono senza sapere bene il perché, forse per ingenuità, o per superficialità…firmarono come si firma una carta in bianco. Andarono poi dal giudice che, finalmente, comunicò ai tre poveretti che la loro colpa era quella di aver trafficato clandestini. Omar chiese le prove: “Come fate a dire una cosa del genere che io non ho mai neanche pensato? Che prove avete?” “Ti hanno visto una volta alla stazione insieme ad un clandestino,” rispose il giudice con aria severa che non ammetteva risposte, “ti hanno visto!!!” Omar lo guardò con aria sorpresa: “Ma io parlo con molti stranieri. Qualche volta incontro miei connazionali, qualche volta alcuni mi fanno domande…come faccio a sapere se si tratta di clandestini o regolari? Non chiedo mica documenti o il permesso di soggiorno alle persone che incontro!” E qui torniamo all’inizio della storia: vi ricordate cosa aveva detto il poliziotto: “Troverò io il modo per incastrarlo…” e così andò a finire. Omar prese un avvocato il quale lo rassicurò: “Vedrai, ti farò uscire presto. Non hanno niente in mano per condannarti perché tu sei regolare, hai casa e lavoro…uscirai presto”. Non fu così: dopo un paio di settimane il poveretto e i suoi amici furono trascinati in tribunale e, come scimmie, non capiscono niente di quello che sta succedendo: non capiscono quanto dice il giudice, non capiscono quello che dice l’avvocato perché nessuno traduce loro le parole. Vengono riportati in carcere: dopo un po’ di giorni uno degli amici viene liberato e Omar spera che verrà liberato anche lui e aspetta. Poi parla con l’avvocato che lo rassicura e lui aspetta. Passano i giorni e lui aspetta. Un giorno come gli altri lui guarda fuori dalla finestra, oltre le sbarre dove c’è la libertà. Guarda e vede la sua ragazza fuori dal carcere, la vede piangere e gli si stringe il cuore. La chiama, le grida: “Sono qui. Perché piangi?” “Grazie a Dio, ti ho trovato! Sono venuta da lontano, ti ho cercato tutti giorni senza trovarti… solo per caso sono passata qui e ti trovo dove non avrei mai immaginato! Perché sei qui? Cosa hai combinato per stare in prigione? Cosa hai fatto?”. Omar le raccontò la sua disgrazia e giurò che non aveva fatto niente di quello di cui era accusato
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