OLTRE I CANCELLI
PRISON CHRONICLES / 2009 N.5
Paolo F.
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Un giorno di tanti anni fa ho varcato i cancelli del carcere. In macchina dei carabinieri.
Mi hanno fermato per strada, l’appuntato si è avvicinato, mi ha chiesto i documenti, ha letto attentamente.
In un attimo mi sono trovato tra tre uomini in divisa che confabulavano in modo a me poco chiaro.
Uno di loro col volto scuro, ben rasato, un’aria cupa ma gentile mi ha detto “venga con noi”.
Sono salito sulla macchina e mi hanno portato in caserma. Domande su domande, senza un momento di tregua. Cercavo di rispondere, ma ero confuso, impaurito, non sapevo cosa realmente volessero da me.
Più passava il tempo e più la mia mente era confusa, i ricordi vaghi. Sentivo il bisogno di un momento di tregua, di silenzio, le domande di quegli uomini sembravano proiettili.
Mi si chiudevano gli occhi, la mente voleva fuggire dal mio corpo per nascondersi in un angolo silenzioso.
“A che ora sei rientrato a casa quella sera? Cosa hai fatto? Dove hai lasciato la macchina? Chi c’era con te? Dove hai messo i soldi?”
Alla fine ripetevo ossessivamente, quasi senza sentire “Non so… Non ricordo…”
Poi mi hanno detto di cosa mi accusavano: truffa ed estorsione.
Era vero, tutto vero. Quando mi hanno ammanettato dalla finestra entrava un raggio di sole che infrangendosi sui ferri ha reso lucenti i due freddi bracciali.
Mi hanno fatto risalire in macchina e mi hanno accompagnato in carcere.
All’interno dell’auto i rumori esterni sembravano ovattati, incominciava gradatamente il mio allontanamento dal mondo. Una volta entrato, il carcere mi è parso peggio, molto peggio di quanto potessi immaginare. Pesanti cancelli si aprivano per farmi entrare in lunghi corridoi.
Un materasso in gommapiuma, un cuscino, lenzuola, una coperta. Questa la dotazione che portavo lungo la scala che mi avrebbe condotto alla cella.
Aperto il blindato e la cancellata, la guardia mi ha invitato ad entrare. Mi hanno accolto sguardi stanchi, annoiati, volti senza espressione. “Così riduce il carcere?” Mi chiesi.
Quei compagni forzati di vita non mi accolsero con benevolenza, ero un uomo in più che andava ad aggiungersi in una cella già sovraffollata.
Sistemai il letto al secondo piano di un letto a castello. Mi sdraiai, mi sentivo perso! Il “fuori” mi appariva lontanissimo. Ricordo la paura di chiudere gli occhi e di cadere nel sonno perché lo prevedevo invaso da mostri. Come sarebbe trascorso il tempo in quel luogo? Chi avrei incontrato?
Mi avvolse l’angoscia, ebbi la sensazione che quel momento fosse eterno.
Nella notte si rincorsero mille immagini del passato, mi sfuggivano invece le immagini più recenti, non ricordavo cosa era accaduto nelle ore prima di essere arrestato.
Quando incominciò ad albeggiare mi affacciai alla finestra stringendo con le mani le sbarre. Il fiume scorreva silenzioso e in fondo il verde dei giardini.
I miei compagni dormivano nei loro letti, di molti non scorgevo il volto coperto dal lenzuolo.
Alle pareti erano appese fotografie, immagini di veline, un calendario. Ho contato otto persone oltre me in una cella piccola dove tutto era ammassato.
Da questo ebbi la percezione di come il carcere è capace di togliere con violenza l’individualità dell’essere umano e la sua dignità.
Eppure mi dovevo adattare.
Per un attimo pensai di soffrire di claustrofobia, quando mi avvicinai alla porta e realizzai che cancello e blindato erano chiusi e che solo dall’esterno e negli orari previsti lo avrebbero aperto.
Verso le 8,30 portarono il latte, la colazione. Sentii urlare il mio nome nel corridoio, mi affacciai alla porta, l’agente mi disse che dovevo andare dal medico. Finito dal medico fu la volta dell’educatore. Sentivo che almeno qualcuno si occupava di me. Poi passarono i giorni e fino a quando non venne il giudice per la convalida dell’arresto non vidi più nessuno.
Il tempo era scandito dall’apertura e dalla chiusura delle celle, dal pranzo e dalla cena, quei bisogni primari che facevano sentire più animali che uomini.
Seppi dai miei compagni che all’interno del carcere si tenevano corsi per detenuti, mi informai, potevano essere interessanti, ma in quel momento la mia testa era piena di confusione.
Così si succedevano i giorni, le settimane, i mesi. In carcere si vive fuori dal tempo, sempre in attesa di qualcosa che deve accadere e non accade mai, di una lettera che non arriva, di una visita che tarda.
Tra le mura del carcere si consumano le vite di quegli uomini che hanno sbagliato, ma cosa verrà restituito a quella società che li ha esclusi per espiare la pena?
Uomini morti?
Uomini arrabbiati?
Uomini senza più un’identità?
RORHOF